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Ronen “Roni” Koresh ha portato in Sardegna nel febbraio scorso la sua compagnia,  ospite della Cedac/ Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna, la principale organizzazione di spettacoli dell’isola.

Due le piazze coperte, quella al Teatro Comunale di Sassari, e l’altra  al Teatro Massimo di Cagliari. Lo spettacolo  “La Danse & Bolero” comprende l’avvincente racconto per quadri ispirato ai celebri dipinti di Henri Matisse, figura di spicco della corrente artistica dei Fauves, dall’innovativo e già dirompente “Le bonheur de vivre” alle due versioni de “La Danse”, custodite rispettivamente al Museum of Modern Art di New York e al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e l’inedita coreografia ispirata al “Boléro” di Maurice Ravel, costruita su una metrica incalzante e ipnotica, in un crescendo ricco di energia e pathos culminante nel travolgente e quasi parossistico finale.

«Penso che questi due lavori siano una meravigliosa rappresentazione della versatilità e della capacità della Koresh Dance Company di esplorare molti aspetti diversi della vita e della danza» – ha affermato il coreografo e direttore artistico Ronen “Roni” Koresh .

La Dance”, trasfigurazione coreutica dell’arte di Matisse su musiche composte da John Levis, impreziosita dai testi poetici scritti e recitati da Karl Mullen, nasce da uno spunto quasi autobiografico: «Il poster de “La Danse” era appeso nella mia camera da letto quando ero bambino, e mi piaceva per i colori e il disegno dei corpi, ma non lo guardavo da persona matura, ero un bambino… e l’ho adorato» – racconta Ronen Koresh –. «Cinque anni fa, questo dipinto è apparso su Facebook insieme alla storia di un’opera di Matisse rubata a una famiglia durante la seconda guerra mondiale e successivamente recuperata e restituita ai legittimi proprietari. Allora si è risvegliato di nuovo il mio interesse, mi sono soffermato a guardarlo, ma questa volta con occhi diversi. Ho iniziato a vedere il vero significato dietro a questo meraviglioso dipinto. Potevo vedere la vita intorno a noi, il cielo blu e la terra verde e le persone in cerchio che si aggrappavano. Potevo vedere il dolore, potevo vedere la gioia, potevo vedere la lotta e la forza all’interno del cerchio della vita. Questo mi ha ispirato a creare le mie storie su ciò che avevo vissuto, guardando il dipinto. Il mio lavoro come coreografo si occupa di umanità, relazioni e comunità. Ecco perché questo dipinto era perfetto per ciò che aspiro a creare».

Tra i capolavori della storia del balletto, il “Boléro” di Maurice Ravel, creato per Ida Rubinštejn (che lo eseguì per la prima volta all’Opéra national de Paris il 22 novembre 1928, con la coreografia di Bronislava Nijinska), ha affascinato grandi coreografi: «Ho sempre voluto coreografare il “Boléro” e sono sempre stato ispirato dalla musica di Ravel» – rivela Ronen Koresh –. «Trovo che abbia molti strati diversi e poiché molti coreografi si sono espressi attraverso questo particolare brano musicale, ho voluto condividere anche la mia interpretazione. Dopo molti tentativi, ho trovato la mia strada attraverso la grande quantità di infinite espressioni, ed è così che il mio “Bolero” ha preso vita. Nel mio studio c’era una finestra sull’atrio, dove i ragazzi si incontrano per socializzare e aspettano l’inizio della lezione dopo le mie prove. Ci stavano guardando mentre provavamo Boléro, e io ho guardato attraverso la finestra e ho visto tutti i bambini che ballavano intorno. Erano davvero buffi e si muovevano in modo molto naturale seguendo la musica. Sono rimasto stupito e ho pensato: “ecco il mio Bolero”. È stato proprio lì, con i bambini intenti a ballare senza paura, con la semplicità e l’innocenza dell’infanzia, che ho trovato l’ispirazione per creare la mia versione del “Bolero”. Il coreografo israeliano non teme i confronti con i grandi maestri: «Il passato mi ha sempre guidato e mi ha portato dove sono oggi, quindi sono grato a tutti i grandi coreografi che sono venuti prima di me. Ho imparato così tanto da loro e oggi esprimo le mie esperienze. Spero di essere un’ispirazione per i coreografi più giovani che verranno».

«La danza è la mia vita e la vita è una danza» – dichiara Ronen “Roni” Koresh –. «Fin da quando ero bambino, mi è sempre piaciuto mostrare ad altri bambini i passi che stavo inventando. Mi piaceva condividere il movimento con le persone. Penso che sia stato l’inizio della mia carriera di coreografo. Amo la narrazione. Amo intrattenere le persone e amo condividere il mio amore per l’arte, specialmente attraverso la danza». Tra i suoi maestri, gli insegnanti che hanno contribuito alla sua formazione, l’artista cita: «In Israele mia madre, Yona Koresh, e poi Alida Gera, Micah Deri, Nira Paz, Moshe Romano. In America Martha Graham, molti insegnanti di Alvin Ailey, Shimon Brown, Luigi e molti altri».

Nel 1991 il coreografo ha fondato la sua compagnia, la Koresh Dance Company: «Ho sempre avuto un certo talento nel creare la danza, nel costruire coreografie per gli studenti. Quando insegnavo alla University of the Arts, ho visto molti studenti laurearsi e la prima domanda che si ponevano era: “dove vado da qui?”. Non era facile trovare una risposta, perché non c’erano molte compagnie di danza in giro mentre c’erano molti ballerini» – ricorda Ronen “Roni” Koresh –. «I miei danzatori mi chiedevano di fondare una compagnia. Ero spaventato. Non pensavo di poterlo fare, ma quando mi sono guardato intorno e ho visto tutti quei meravigliosi volti di artisti pieni di talento, ho deciso di farlo. È stata una decisione difficile e ha richiesto un grande impegno, tanto duro lavoro. Ci sono voluti molti anni perché la compagnia si affermasse e diventasse ciò che è oggi. Col senno di poi, è stato un modo per me di restituire qualcosa alla mia comunità».

Come nasce una coreografia? «La mia ispirazione viene principalmente dalle persone e dagli eventi che danno forma alle nostre vite, e dal desiderio di affinare la mia capacità di comunicare in modo più efficace e significativo attraverso l’arte della danza» – dichiara Ronen “Roni” Koresh –. E annuncia: «Il mio prossimo progetto si chiama “Masquerade”: è una creazione collettiva, un’opera teatrale impreziosita dalla presenza del canto e della danza dal vivo. Il pubblico si troverà immerso in un ambiente imprevedibile, di nuova musica elettronica e sinfonica e di movimento, che mette in risalto lo spazio liminale della realtà che si ripiega su se stessa. Il confine tra realtà e finzione non esiste più. La verità appartiene all’immaginazione di chi guarda».

Le sue origini ebraiche hanno influenzato il suo lavoro? «La mia eredità ebraica e il fatto di vivere in Israele mi hanno dato la possibilità di fare molte esperienze uniche nella vita, che differiscono da quelle degli altri. Il cibo, il clima, le persone, la diversità delle culture all’interno del paese e della comunità e l’aver dovuto prestare servizio militare all’età di 18 anni mi hanno permesso di apprezzare la libertà e il senso di responsabilità. Non do mai nulla per scontato nella mia vita e il concetto di limite è fuori dall’equazione».

L’arte può cambiare la società? «Io credo senza dubbio nel potere delle arti; in caso contrario, non vi avrei dedicato la mia vita» – sostiene Ronen “Roni” Koresh –. La pandemia ha avuto delle conseguenze sul suo lavoro? «La pandemia ha sicuramente influenzato il mio lavoro e il modo in cui lavoro» – rivela il coreografo –. «Ha aggiunto un’urgenza a tutto ciò che faccio e mi ha fatto apprezzare maggiormente le opportunità che si presentano a ciascuno di noi». E conclude: «Non dare mai nulla per scontato, fai sempre meglio che puoi e sii consapevole delle tue fortune (Never take it for granted, always do the best that you can ,and count your blessings)».

Nel nostro tempo attraversato da guerre e epidemie, quale messaggio vorrebbe affidare alle sue opere? «Non importa quanto le cose sembrino difficili, la vita è meravigliosa».

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Nella giornata internazionale del ricordo delle vittime della Shoah, risalta una vicenda che vede un’intreccio fra ebraismo e sardismo, pochissimo conosciuto. Un sipario, accuratamente abbassato sulla storia di una grande famiglia sarda, che tanto ha caratterizzato il progresso economico e sociale della nostra Isola ed in particolare di Macomer lo alzò Nereide Rudas, deceduta il 19 gennaio 2017 a 91 anni, nel finale della propria vita.

La Rudas, da nubile era una Salmon Rudas perchè il padre Pietro Rudas era un ingegnere di Laerru e aveva sposato Emma Salmon di famiglia ebraica, figlia di ebrea anche se convertita e quindi per le antiche leggi Nereide stessa era ebrea e lo aveva sempre saputo se pur timorosamente celato.

A quattro anni perse il padre e con la madre si trasferì a Macomer vivendo con i nonni Gustavo Coen Salmòn e Nereide Tibi figlia di Martino e gestore, sembra proveniente da Torino e probabilmente anch’esso ebreo ma da accertare , dell’Albergo Macomer dove Gustavo alloggiava.

A 17 anni fu una delle tre donne iscritte alla Facoltà di medicina di

Bologna.

Si sposò a 19 anni col medico Carlo Marongiu, ebbe un figlio continuando a studiare ma un’improvvisa vedovanza le impose di continuare in solitudine gli studi di Medicina nell’Università di Cagliari nella quale si laureò intraprendendo la carriera universitaria.

Da grande sarda, fu docente e psichiatra di fama internazionale, di enorme cultura ed umanità, dopo una vita di studio, d’impegno culturale e civile , realizzazioni e grandi successi professionali e scientifici ci ha lasciato da pochi anni.

Nei suoi ultimi tempi stava ri-conoscendo e approfondendo l’eredità delle sue radici ebraiche per parte della mamma Emma, figlia di Gustavo Coen Salmon, ebreo venuto in Sardegna da Livorno nel 1895 per una partita di caccia.

Gustavo decise mettendo su famiglia e sposando Nereide Tibi, di rimanere investendo le sue cospicue ricchezze e soprattutto conoscenze economiche e finanziarie impiegandole in vari settori e con gran successo.

Acquistò terre, aprì caseifici moderni, iniziò la loro esportazione nelle Americhe, costruì la prima centrale elettrica, prestò denaro ad interesse più basso delle banche e battendo l’usura che attanagliava pastori e contadini, fabbricò ville e palazzi.

La sua famiglia Coen Salmon, sefardita cacciata dalla Spagna dopo l’editto del 1492 e approdata in Algeria, era fuggita da Algeri nel 1805 per sfuggire ad un pogrom islamico scatenato contro la comunità ebraica locale e approdando a Livorno.

Oscar, fratello di Emma Salmon, quindi zio di Nereide Rudas, ritornato dalla Grande guerra da eroe fu fra i fondatori del PSdAz e probabilmente fra gli organizzatori nella logistica dei primi congressi dei combattenti e poi del PSdAz a Macomer .

Anche Gustavo Salmon il nonno di Nereide, grande imprenditore in svariati campi e innovatore economico e tecnologico che contribuì alla nascita della Macomer moderna, sostenne il sardismo e fu sempre antifascista.

Per questo fu ammonito e posto sotto sorveglianza dopo la svolta antisemita del regime fascista e divenne vittima dell’applicazione delle severissime norme contro gli ebrei anche in relazione alle attività imprenditoriali.

Non conosco i particolari della persecuzione dell’intera famiglia, se venne attuata o solo minacciata o anche se abbia beneficiato in qualche maniera della copertura conseguente alla particolarissima vicenda del sardofascismo che aveva visto una parte dei sardisti vestire la camicia nera mantenendo saldi gli originari principi sardisti .

Neanche il passaggio al cattolicesimo per potersi sposare lo salvò completamente e in quanto ebreo fu anche minacciato di deportazione che non avvenne forse per rispetto per il figlio ex combattente decorato al valore e per l’amicizia del Vescovo di Bosa al quale, moderno Marrano, aveva donato il Giardino Salmon nel quale venne costruita la chiesa ancora esistente .

Nella facciata della chiesa il Vescovo fece inserire nel rosone una grande stella di Davide, forse per ringraziamento all’amico e mecenate, stella che appare in foto d’epoca e oggi misteriosamente scomparsa.

Dopo l’8 settembre 1943 quando in continente imperversavano i nazisti e i repubblichini, arrestando gli ebrei ed avviandoli nei lager per lo sterminio, la Sardegna fu liberata e occupata dagli Alleati che avanzavano nella Penisola. Scomparve per i Salmon il rischio di essere prelevati e assassinati come avvenne ad esempio per gli ebrei dell’Italia nazifascista e del Dodecanneso italiano ed in particolare a Rodi e lo zio di Nereide il sardista Ugo Salmon fu nominato Commissario prefettizio.

Nereide che in gioventù assieme a tutta la famiglia subì l’umiliazione e la minaccia alla sicurezza e la paura di persecuzione conseguente alle leggi razziali fasciste che richiedevano prove e gradi di arianità sempre più stringenti risalendo anche alle più lontane parentele ebraiche, anche in discendenze miste , raramente affrontava questo lato della sua vita e solo negli ultimi tempi aveva iniziato un percorso di autoanalisi e di svelamento pubblico di una sua identità ebraica oltre che sarda e che stava riscoprendo e rivalutando.

Ne parlava con pochi amici che sentiva aperti e sensibili nei riguardi della sua identità ebraica che con sofferenza interiore estraeva dai ricordi terribili della sua giovinezza che aveva vissuto l’antisemitismo che come un fumo venefico aveva circondato la sua famiglia, ma che anche avvelenava in qualche misura come antisionismo l’ambiente di sinistra al quale politicamente faceva riferimento per cui visse con tante remore e timori di rivelare le proprie origini ebraiche.

Sul sardismo e l’ebraismo furono incentrate alcune sue riflessioni negli ultimi anni della sua vita e aveva registrato con curiosità ed interesse la nascita e le attività dell’Associazione Chenàbura-sardos pro Israele e manifestato il desiderio di incontrare qualche suo rappresentante, dato che questa nascita le aveva sollecitato tanti ricordi e la sensazione liberatoria di non essere più sola.

Anche da parte mia era grande l’interesse per un incontro.

La conoscevo già ma non da questo punto di vista perché la sua origine ebraica non mi era nota .

Purtroppo ci lasciò prima che potessi vederla e parlarci ma comuni amici che stavano preparando l’incontro mi hanno raccontato del suo desiderio di riappropriarsi della sua eredita culturale ebraica, rammaricandosi di averla dissimulata anche per una timorosa autocensura rispetto alla cultura dominante nella sinistra italiana e sarda a cui faceva riferimento permeata di antisionismo come forma ambigua di antisemitismo.

Sta adesso agli storici e agli appassionati di storia approfondire questo mio appunto e ricordo .

Lo storico sostiene che – “capire le cause del disprezzo significa individuare l’origine della paura.

La paura porta sempre a disprezzare e nasce dalla debolezza, dall’inettitudine. Avere paura porta con sé l’esigenza di trovare colpevoli su cui riversare le proprie frustrazioni. Per intendere in profondità l’antisemitismo è necessario fare un volo ‘à rebours’ fino ai prodromi del Medioevo, atterrando nel cuore di quel ‘laboratorio’ generativo della religione cristiana che furono i cosiddetti Padri della Chiesa.

L’interpretazione preconcetta di alcuni passi evangelici determinò una serie di valutazioni e convincimenti sulla vita e la morte di Cristo, in cui il complesso del popolo ebraico assunse responsabilità e caratteri atemporali, costituendo l’avvio di una visione ‘razzista’ della redenzione messianica, ovviamente sbagliata e ovviamente incoerente rispetto all’originaria Buona Novella (il Vangelo). L’Ebreo divenne il polo negativo di una necessità provvidenziale, una sorta di trasposizione in chiave ‘terrestre’ della ribellione luciferina.

Gli Ebrei iniziarono ad essere visti come i colpevoli della morte di Gesù, non riconosciuto come Messia ma soprattutto negato nella sua natura divina. Necessari e orribili come il demonio, essi assunsero – anche per mezzo delle immagini artistiche – il ruolo di causa di tutti i mali. Nel Sette-Ottocento il negativo della ‘razza’ ebraica venne trasposto su un piano sociale, praticamente biologico e pseudoscientifico, dando avvio alla linea di pensiero assunta e poi reinterpretata in termini di supremazia politica dal nazismo e dal fascismo. Ma le radici di quell’orribile pianta affondano nel cuore della religione. Solo la conoscenza – a tratti imbarazzante – di quanto abbia inciso il pregiudizio religioso sulla vita di milioni di persone innocenti consente, da un lato di comprendere una parte importante dell’intera storia occidentale, dall’altro di poter rifondare i concetti del ‘sacro’ e del ‘divino’ su valori non divisivi. Fare memoria significa diventare consapevoli di una storia complessa, quasi mai raccontata, una storia sgradevole ma che costituisce l’intelaiatura di tanti ‘sviluppi umani’ di ciò che ci circonda, ancora oggi”.

L’ambasciata di Israele ha voluto essere presente all’inaugurazione del GIARDINO DEI GIUSTI TRA LE NAZIONI DI SARDEGNA – di via dei Genovesi, 118 a Cagliari.

Il vice ambasciatore Alon Symhayoff nel suo discorso ha ribadito l’importanza di ricordare coloro che a costo della propria vita hanno salvato ebrei dalla morte o dall’internamento nei lager, ma ha voluto anche ribadire l’importanza dell’esistenza dello Stato di Israele che ora difende e tutela gli ebrei, in un mondo dove ancora persiste un antisemitismo strisciante.

Di seguito la registrazione del discorso:

Il Giardino dei Giusti tra le Nazioni di Sardegna si trova all’interno del Palazzo Siotto di Cagliari in via Genovesi , una antica e signorile dimora divenuta oggi  sede di una Fondazione, al cui interno trova spazio un centro culturale per convegni e spettacoli.

La posa in opera è stata voluta fortemente da Mario Carboni, presidente dell’Associazione culturale Chenàbura, attiva nel territorio da più di 10 anni con l’intento di  valorizzare la storia della comunità ebreaica  in Sardegna e nel contempo costruire legami di amicizia con Israele.

Una cerimonia molto sentita in città perchè organizzata il giorno precedente il 27 gennaio, considerato ormai universalmente il “giorno della memoria” in ricordo del  genocidio del popolo ebreo durante il nazismo.

Nel Giardino dei Giusti sardi ( in analogia col Giardino dei Giusti di Palermo ) sono state poste sette semplici targhe artistiche in ceramica smaltata realizzate su commessa dell’Associazione Chenàbura da Fabio Frau, artista che opera in Castello, quartiere storico del capoluogo, con il nome, luogo di nascita e morte dei Giusti.

Ai cinque Giusti sardi generalmente noti e certificati dallo Yad Vascem si sono aggiunti recentemente a seguito della  ricerca di Chenàbura altri due e quindi sono ad oggi sette coloro che sono ricordati nel Giardino dei Giusti fra le Nazioni di Cagliari.

Altre due targhe sono dedicate rispettivamente al ricordo del Pordajmos , il genocidio dei Rom e dei Sinti e del Metz Yeghern il genocidio degli Armeni, internazionalmente assimilati alla Shoah.

Una targa è dedicata ai Giusti fra le Nazioni ignoti.

Durante la cerimonia le autorità presenti hanno ricordato l’importanza della memoria soprattutto in un momento nel quale l’antisemitismo non sembra ancora sconfitto e l’Europa è attraversata da una guerra terribile.

Toccante il momento in cui uno dei soci di Chenàbura, Yakov Alevi ha intonato I canti cerimoniali ebraici in ricordo della Shoa con al suo fianco l’Arcivescovo di Cagliari,  Monsignor Giuseppe Baturi che di seguito a dedicato una preghiera cristiana ai Giusti tra le Nazioni di Sardegna e benedetto i presenti.

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Presentazione del libro

“Mossad, una notte a Teheran”

Di MICHAEL SFARADI

Prefazione di Nicola Porro

Edizione  La nave di Teseo – 2020

 

Evento Organizzato da Associazione Chenàbura – Sardos pro Israele

 Luogo Fondazione “Giuseppe Siotto

Via dei Genovesi, 114

09124 Cagliari,

 

Venerdì 11 Novembre 2022

Orario 18:30

MOSSAD

Una parola che suscita ammirazione e timore allo stesso tempo. Si tratta del servizio di intelligence israeliano che opera all’estero dello Stato ebraico, con analisti ed agenti efficienti e determinati preparati con addestramenti durissimi, sostenuti da tecnologie avanzatissime, informazioni e segreti database sempre aggiornati . Lo scrittore e giornalista Michael Sfaradi ci racconta con due successive spy story basate su straordinarie operazioni veramente accadute questa “macchina da guerra” inarrestabile portandone alla luce il cuore pulsante fatto di esseri umani, donne e uomini con storie, traumi, dubbi ed incertezze.

 

“ Mossad una notte a Teheran”

Il 30 aprile 2018 il premier Benjamin Netanyahu mostrò in diretta televisiva parte dell’archivio segreto sul nucleare iraniano che agenti del Mossad avevano trafugato a Teheran e portato in Israele. In un’operazione unica nella storia dello spionaggio, furono sottratti oltre 55.000 documenti, cartacei ed elettronici, che avevano un peso totale di cinquecento chilogrammi. Secondo gli esperti dell’Intelligence israeliana e della CIA, che visionarono il materiale in anteprima, quei documenti erano la prova che l’Iran stava ingannando il mondo intero e cercava ancora di creare l’atomica. Israele aveva voluto provare al mondo la malafede iraniana, e lo fece attraverso una vasta operazione d’intelligence. Una spy story tesa e incalzante che ricostruisce le tensioni politiche, diplomatiche e militari, che caratterizzarono il periodo che precedette le rivelazioni di Netanyahu e che, basandosi sui misteri dei documenti recuperati, racconta, sotto il velo della fiction, come potrebbe essersi svolta una delle più grandi e controverse operazioni della storia dello spionaggio.

 

“ Operazione fuori dagli schemi”

Nell’ottobre del 2005, arriva sulla scrivania del Memuneh, il direttore del Mossad, un rapporto inaspettato. A inoltrarlo sono gli agenti infiltrati in Siria e quello che contiene lascia il servizio di intelligence israeliano senza parole: il governo di Damasco, con la collaborazione di esperti nord- coreani, sta costruendo un reattore nucleare per scopi militari nel sito sperduto di Al-Kibar. Le informazioni sono dettagliate, l’allerta è altissima, ma prima di agire, prima di prendere qualsivoglia decisione, il Primo ministro israeliano ha bisogno di prove schiaccianti, la cosiddetta “pistola fumante”. È così che scatta l’operazione “Fuori dagli schemi”: un piano perfettamente congegnato, rischiosissimo e non convenzionale, grazie al quale le spie del Mossad proveranno a sventare quella che sembra a tutti gli effetti una delle più grandi minacce di sempre allo Stato ebraico.

Chenabura Museo Sfaradi

Di seguito il link alla registrazione video